Sullo sfondo va posta la diffusa e grave povertà che caratterizzava da sempre le genti di montagna, specie quella trentina che fino al 1918 era governata dall’Austria come provincia periferica dell’Impero abitata da una minoranza di lingua italiana. E già l’impero Austriaco, pur non agevolando il deflusso migratorio spontaneo, usò lo strumento delle migrazioni di massa come strategia per alleggerire paesi e zone particolarmente depresse spostandole ai margini dell’impero per presidiare, con sudditi fedeli e laboriosi, l’instabilità dei confini. Tra il 1882 e il 1884 il governo austriaco aveva avviato un progetto di colonizzazione agricola con circa 800 trentini (dalla Valsugana e da Aldeno) in Bosnia-Erzegovina anche con lo scopo di ridimensionare la componente di popolazione mussulmana nell’area. I coloni trentini andarono incontro a destini più o meno fortunati a seconda della zona in cui si insediarono. Un’ultima serie di partenze si verificò dal Primiero verso la zona di Tuzla tra il 1890 e il 1925. Un’ altra emigrazione di massa fu organizzata allo scoppio della I^ guerra mondiale col trasferimento di intere popolazioni dei paesi a ridosso del fronte di guerra verso l’Italia nelle “città di legno” del Voralberg austriaco ai confini con la Svizzera. Salvaguardò numerose vite, ma fu pur sempre una sofferenza immane per chi l'ha subita.
Il fascismo ha usato l’emigrazione “di Stato” come strumento di controllo e gestione demografica in funzione del consenso, ma anche per l'eliminazione del dissenso. Emblematica è la bonifica dell’Agro pontino a sud di Roma con l’organizzazione e distribuzione di appezzamenti di terra bonificata ai coloni provenienti da Veneto, Romagna e Marche ed anche, a seguito di accordi italo-serbi, per un gruppo di trentini/tirolesi già protagonisti dell’emigrazione negli anni ’80 del 1800 in Bosnia/Erzegovina, da dove ri-migrarono direttamente verso Ardea e Pomezia a sud di Roma. Ma il fascismo ha anche spinto e organizzato gruppi di emigranti dopo le guerre d’Africa a colonizzare Eritrea ed Etiopia e a consolidare l’occupazione della Libia.
Il Corno d'Africa colonizzato dall'Italia in una mappa del 1936
Lo sbarco degli italiani a Tripoli: saranno 20.000 al termine della campagna di colonizzazione. Immagine dal web
Nella foto dell'Istituto Luce i gruppi famigliari rurali taliani sbarcati in Libia
Più vicina al Trentino e per forzare l’italianizzazione è stata la migrazione in massa di forze lavoro italiana nelle zone industriali costruite ex novo alla periferia di Bolzano e Merano. I trasferimenti per l'eliminazione del dissenso, oltre ai confinamenti politici di oppositori al fascismo, si sublimano nella immane tragedia dei treni di persone destinati ai campi di concentramento in Germania.
Un’altra minore emigrazione “di stato” che vede coinvolti i trentini è stata organizzata dal 1936 per dar lavoro e presidiare con coloni il Dodecanneso, 13 isole greche presidiate dall’Italia dopo la guerra contro gli Ottomani in Libia nel 1912. Diverse famiglie di boscaioli della val di Fiemme furono trasferite per rigenerare di boschi e coltivazioni le isole e fondarono la cittadina di Campochiaro a Rodi. Rientrarono tutti nel 1943 dopo l’8 settembre e l’occupazione delle isole greche da parte dei nazisti.
Nel II° dopoguerra, nel 1947, una particolare impressione provocò l’esodo degli italiani cacciati dall’Istria divenuta Jugoslava e nel 1951 l’alluvione del Polesine costrinse migliaia di contadini del Delta del Po’ a rifarsi una vita altrove, specie in alta Italia.
L'alluvione del Polesine nel 1951 in un'immagine sul web
Tutta questa mobilità di genti e i resoconti che ne propagandavano l’esito positivo come unica soluzione per uscire dalla miseria, ha innescato la percezione che l’emigrazione era un male accettabile, tanto più se organizzata dallo stato, rispetto alle condizioni di fatiche e grave indigenza che la vita sui monti del Trentino consentiva.